L’opera d’arte (…) dice anche qualcos’altro
oltre la pura cosa. àllo auoreuei (…): è allegoria.
Alla cosa fabbricata l’opera d’arte riunisce
anche qualcos’altro. Riunire si dice in greco
svn-bàllein. L’opera d’arte è simbolo.
Martin Heidegger
Quello di simbolo è uno dei concetti più dibattuti nella storia della cultura occidentale. Una delle molte definizioni è quella di Paul Ricoeur, che identifica i simboli con espressioni a doppio senso che le culture tradizionali hanno aggiunto alla nominazione degli “elementi” del cosmo … alle sue “dimensioni” … ai suoi “aspetti”.
Esiste un simbolismo rigorosamente mitico e religioso esiste un simbolismo onirico, ed esiste un simbolismo poetico, che tuttavia s’intersecano profondamente. Anche senza arrivare, come i romantici, a formulare l’identità di simbolo e arte, non si può negare che l’arte sia sempre stata, nella tradizione occidentale, un luogo privilegiato per il simbolo.
L’essenzialità del simbolo rispetto all’arte è dimostrata da tutta la storia delle arti e della letteratura, ma anche da quella dell’interpretazione delle opere basti pensare all’iconologia di Erwin Panofsky.
In realtà, l’arte non è né produzione di puri segni come quelli della matematica, né semplice riproduzione funzionale dì una immagine. L’opera esibisce forme sensibili e significative che sono figure a duplice o a molteplice senso, cioè simboli.
La più forte valorizzazione del simbolo nella storia della filosofia si è avuta con l’idealismo tedesco, che gli attribuisce uno statuto privilegiato . Lo stesso Kant può essere considerato un precursore del nuovo concetto di simbolo nella Critica del giudizio, tale concetto compare in molti passi importanti. Anzitutto nel capitolo 59, intitolato Della bellezza come simbolo della moralità. Il punto di partenza decisivo della riflessione kantiana è il discorso sulla rappresentazione (“ipotiposi”). Il concetto di rappresentazione simbolica è, secondo Georg Gadamer, uno dei più brillanti risultati del pensiero kantiano. La differenza tra simbolo e immagine è qui ricondotta alla differenza tra rimandare e rappresentare il simbolo non è un puro rimandare ad altro; non ha come il segno una funzione indicativa, ma ha una funzione rappresentativa. L’essenza del simbolo è puro rappresentare. Ciò che il simbolo rappresenta è infinito, inesprimibile, seppur comprensibile per evidenza. Nel simbolo ha luogo la coincidenza di sensibile e non sensibile, l’inseparabilità di intuizione visibile e significato invisibile. Esso ha una funzione anagogica e una funzione gnostica in virtù della quale giunge nelle vicinanze del geroglifico. L’interpretazione stessa come decifrazione fa parte del processo di simbolizzazione.
Ma è con Schelling che giunge a compimento la conversione del concetto di simbolo in principio estetico universale, attraverso l’istituzione di un nuovo rapporto, di un rapporto privilegiato tra mito e simbolo. Schelling pensa l’arte come “rivelazione, filosofia, religione, mito”, e le riconosce un posto nel mondo spirituale che non può essere paragonato a quello di nessun’altra attività umana. Egli è convinto che ogni autentica opera d’arte nasca quando “si toglie quella muraglia invisibile che divide il mondo reale dall’ideale e che l’arte non sia se non “l’apertura attraverso la quale appaiono nel loro pieno rilievo le forme e le ragioni di quel mondo della fantasia il quale traluce solo imperfettamente attraverso quello reale”.
Il testo più importante per il concetto di simbolo in Schelling è quello delle Lezioni di filosofia, tenute a Jena nel 1802-1803, e successivamente a Wurzburg nel 1804-1805. Qui la teoria schellinghiana risulta compiutamente circoscritta nella misura in cui, per Schelling, la rappresentazione dell’assoluto, che comporta l’assoluta indifferenza dell’universale e del particolare nel particolare, è possibile soltanto in termini simbolici.
Nella Filosofia dell’arte di Schelling, le determinazioni di mitologico e di simbolico finiscono per trapassare l’una nell’altra. Ed è proprio questa dimensione ad affascinare Bruno Ceccobelli, che realizza nella sua arte una sorta di narrazione per immagini in cui la convergenza di mito e simbolo esprime l’unità della coscienza e del mondo, della mente e del corpo, proprio secondo quanto sostenevano i teorici del primo romanticismo tedesco, e soprattutto Schelling. E secondo quanto sosteneva anche un pensatore di grande importanza per la vita e per l’arte di Ceccobelli: l’antroposofo Rudolph Steiner che, come Schelling, pone l’arte al centro dell’avventura formativa ed espressiva dell’esistenza umana.
É alla narrazione mitica che Ceccobelli vuole riattingere, pur concedendo poco ad anacronismi e citazionismi, cioè ai miti – e ai simboli – già codificati e consegnati a un repertorio mitologico perlopiù freddo e accademico. É un eclettismo” mitologico, quello del nostro artista, capace di giungere, attraverso un processo di rielaborazione, ad un originale espressione formale. Un sincretismo mitologico che Ceccobelli ha in comune con grandi artisti romantici o preromantici Blake o Runge e allude alla complessità alla polimorfa seduzione della realtà, irriducibile a qualsiasi modo ed ideologia predeterminata.
Uno dei caratteri essenziali della modernità è assai spesso individuato nella “demitologizzazione” e nella secolarizzazione: in quanto “oblio delle ierofanie, oblio dei segni del sacro”, essa significherebbe anche, secondo Paul Ricoeur, una cancellazione del simbolo, dato che quest’ultimo va inteso anche come un “segno originario del sacro”.
Questa de-simbolizzazione sarebbe, secondo Ricoeur, tanto più irrimediabile se si ammettesse che la modernità significa anche uno sradicamento tendente a far scomparire nell’uomo il sentimento di appartenenza cosmica di cui si nutrono tanti simboli: l’uomo moderno, soggetto a una catena infinita di mediazioni, perde sempre di più il suo rapporto intimo con la realtà e i suoi elementi. Ed è proprio la stanchezza e il rifiuto delle mediazioni della politica, dell’economia , della cultura “materiale” intesa come esclusivamente “materialistica”, a spingere sempre più decisamente Ceccobelli verso il “primario”, verso la forza originaria e cosmica della poesia e del simbolo, che l’artista considera inscindibili, facendo propria una forma mentis del neoplatonismo romantico.
In effetti, l’arte del XX secolo è percepita essenzialmente come iconoclasta, dunque distruttrice di simboli, poiché questi non si concepiscono se non radicati in immagini, come dice molto bene il termine tedesco per “simbolo”: Sinnbild.
Ma le rivoluzioni estetiche della modernità, se hanno innegabilmente potuto comportare un momento decisivo di desimbolizzazione, non hanno tuttavia abolito la dimensione simbolica dell’arte. Da una parte, la distruzione dei simboli tradizionali non esclude la possibilità che appaia un nuovo paesaggio simbolico, alla guisa di quella “nuova mitologia che i primi romantici intendevano creare. D’altra parte la cancellazione dei simboli tradizionali non rimette in causa la simbolicità innata dell’arte, nonostante le molteplici “s-definizioni” alla quale essa è stata sottoposta durante il secolo appena terminato: la dimensione simbolica, lungi dall’essere storicamente circoscritta e definita, è forse una dimensione inerente all’essere-nel-mondo, così come l’invenzione di forme utopiche è inerente all’esistenza come progetto, come spiegamento critico di possibilità praticabili per l’uomo.
L’arte di Ceccobelli dimostra proprio che la de-mitologizzazione propria della modernità non comporta necessariamente una perdita dei simboli. Si osserva, al contrario, in essa, una ri-simbolizzazione che passa attraverso l’invenzione di forme e spazi “utopici”: spazi irreali, non-luoghi, labirinti della mente e dell’anima, simmetrie sacrali, nell’ambito di una figurazione magica e vibrante, per lui oggettiva e realizzabile. Tale figurazione è anti-naturalistica e anti-descrittiva -Ceccobelli non vuole descrivere il mondo e l’uomo, ma estrarne un’essenza simbolica – eppure non si concede mai alla mera elucubrazione esoterica – nonostante i complessi simbolismi – e si carica invece del senso di una materia viva. Un processo creativo di natura simbolica, che parte dal regno terrestre della materia e porta con sé la “carne del mondo”, direbbe Merleau-Ponty, per giungere, attraverso una sorta di distillamento alchemico, alla purificazione della forma nelle frequenze altissime di una luminosità neoplatonica.
Il simbolo, nell’opera di Ceccobelli, presenta una struttura ambivalente che mescola il disvelamento e l’occultamento. Da un lato, dunque, rinvia proprio a qualche cosa che esso disvela; dall’altro, questa transitività è sempre trattenuta nell’immanenza della materia e delle forme. Si può, a questo proposito, risalire a uno dei significati etimologici di “simbolo”, quello di tessera hospitalis: ciascuna delle parti di un oggetto spezzato in due e conservato come pegno dell’ospitalità data o ricevuta, nell’antica Roma. L’ospite poteva così perennemente ricordare chi l’aveva ospitato, guardando il suo frammento e pensando alla parte mancante di esso. E viceversa, chi l’aveva ospitato poteva ricordarsi di lui.
L’opera d’arte, in quanto è fondamentalmente simbolica, unisce una presenza e un’assenza; presenta un’assenza direttamente nella propria presenza, come il frammento nelle mani di ciascuno dei due evoca il suo complemento assente, e, attraverso ciò, un’impossibile completezza, una finitudine insuperabile, e un indomabile senso di nostalgia e di mistero.
L’ambiguità dell’essere, quale la descrive Merleau-Ponty, indica che esso possiede la struttura del simbolo quale tessera hospitalis: “l’essenza propria del visibile è di avere un doppio invisibile in senso stretto , (…) rende presente, per così dire, una certa assenza”.
L’invisibile, l’assenza resa presente dal simbolo è uno dei cardini su cui si regge l’arte simbolica di Ceccobelli. I suoi simboli non sono quasi mai simboli tradizionali e pre-costituiti: sarebbe possibile usare, in riferimento alle sue opere, le parole che sempre Merleau-Ponty pronuncia parlando di una tipologia di tracce simboliche che è impossibile decifrare secondo un codice definito e fissato precedentemente dall’usanza o dalla tradizione.
Questi simboli sarebbero allora una sorta di testimonianza di una sacra appartenenza tellurica della materia, del fatto che l’essere, sin nella sua corporeità più elementare, è pervaso da quello che sempre Merleau-Ponty definisce “un logos selvaggio” il sentimento di un legame sacro con la terra e con tutti gli elementi naturali, che ci indica in Ceccobelli l’esponente di una sorta di “materialismo mistico”.
Nei simboli di Ceccobelli si avverte comunque la doppiezza del simbolo nella sua veste di tessera hospitalis: la sua irriducibile tensione all’intero, alla totalità – l’immagine dell’uovo simbolo del tutto cosmico è frequente – e la sua altrettanto irriducibile coscienza di una frammentarietà, che si svela anche nell’aspetto di “stemmi” o di “emblemi” che possono assumere i suoi simboli, acquistando – paradossalmente, ma coerentemente con questo senso di doppiezza, di coesistenza di totalità e frammentarietà – un carattere allegorico, nel senso formulato da Walter Benjamin. A questo punto, è necessario fare un passo indietro.
Con il saggio Sugli oggetti dell’arte figurativa, del 1797, Goethe è il primo a separare nettamente le definizioni di simbolo e di allegoria, fino ad allora non specificamente distinte l’una dall’altra, iniziando ad attribuire al simbolo una posizione privilegiata nell’ambito del poetico. Qui l’elemento caratterizzante del simbolo è visto nella capacità, se non proprio di rappresentare l”’universale” in termini concreti, almeno di portarlo a espressione mediante una deformazione intuitiva, allusiva e suggestiva dell’individuale e del particolare. Per “universale” s’intende l’essenza, il fondamento delle cose, ciò che perdura laddove tutto si trasforma, ed è quindi sottratto alla dimensione temporale. L’allegoria, al contrario, dà forma all’individuale (e al particolare), solo in modo tale che esso appare una pura metafora dell’universale, un suo corrispettivo concreto arbitrariamente fissato. Goethe in questo modo esclude l’allegoria dall’autentico ambito poetico. Nelle sue Massime e riflessioni (9, 639, n. 1113), il poeta-filosofo tedesco si esprime in questi termini: “Il simbolismo trasforma il fenomeno in idea, l’idea in immagine, in modo tale che l’idea nell’immagine rimane sempre infinitamente efficace e inaccessibile e, anche se pronunciata in tutte le lingue, resta tuttavia inesprimibile.”
Questo procedimento interpretativo viene chiaramente illustrato da uno studioso come Friedrich Gundolf, che scrive:
il simbolo esprime, incorpora, è corpo. L’allegoria significa, rappresenta, è segno. Il simbolo è la forma di un’essenza, coincide con essa, rappresenta ciò che l’essenza è. L’allegoria rimanda a ciò che essa non è. Nel simbolo il concepimento di forma e contenuto è simultaneo un contenuto viene concepito in quanto forma. Nell’allegoria un segno viene messo in rapporto a un pensato, oppure un segno viene creato per un pensato.
Qui non c e né un prima né un dopo. Il simbolo appartiene alla totalità della vita, si pone – come nascita – al di fuori di ogni calcolo e ogni arbitrio. L’allegoria appartiene al mero pensiero e sottostà alla convenzione. Il simbolo nasce laddove un’entità prende forma. L’allegoria, laddove un pensato cerca una forma e la trova L’allegoria è un rapporto, il simbolo un’essenza.
Gadamer, nel suo celebre libro Verità e metodo, ritorna sulla questione del rapporto tra allegoria e simbolo, secondo lui accomunati da un’identica “struttura della rappresentazione di qualcosa per mezzo di qualcos’altro”, ma mentre nell’allegoria si evidenzia una struttura latente diacronica, temporalizzata, nel simbolo si evidenzia una struttura statica, sincronica, simultanea, al di fuori del tempo. La “temporalizzazione” dell’allegoria, la sua “storicità” intesa come coscienza di un divenire irreversibile è anche ciò che caratterizza il pensiero di Benjamin, secondo il quale il simbolico nell’accezione goethiana è frutto di un’operazione mistificante, in quanto pretende di ascriversi ad una totalità originaria assolutamente inattingibile. Sono ormai citatissime, eppure inesauribilmente significanti, le parole con le quali, nel suo splendido Dramma barocco tedesco, Benjamin contrappone al simbolo goethiano l’allegoria, che demistifica la pretesa del simbolo stesso ad una totalità, ad un appianamento di tutte le contraddizioni:
Mentre nel simbolo, con la trasfigurazione della caducità fuggevolmente si rivela il volto trasfigurato della natura nella luce della redenzione, nell’allegoria si propone agli occhi dell’osservatore la facies hippocratica della storia come un pietrificato paesaggio primevo. La storia in tutto quanto ha, fin dall’inizio, di inopportuno, di doloroso, di sbagliato, si configura in un volto – anzi: nel teschio di un morto. (…)
Nel campo dell’intuizione allegorica l’immagine è frammento, runa. (…) La falsa apparenza della totalità si spegne. (… ) Con ciò l’allegoria si pone al di là della bellezza. Le allegorie sono, nel regno del pensiero, quello che sono le rovine nel regno delle cose.
In effetti, nonostante l’arretramento dello spunto occasionale, del referente quotidiano, la vita dell’artista come individuo continua a far sentire le sue pulsazioni , la fragile poesia del suo divenire. E si traduce immediatamente nel sentimento del divenire della vita universale, del tempo come germinazione, ma anche mutamento e morte.
L’esperienza estetica dell’immagine che Ceccobelli ci comunica non si rifugia insomma nell’illusione di eternità suggerita dalla sua potenza raffigurativa. La maggiore menzogna dell’arte, sosteneva lo Zarathustra di Nietzsche parafrasando Goethe, consiste nel far credere di poter attingere alla dimensione dell’immortale, dell’imperituro “Tutto ciò che è imperituro non è che un simbolo!”. L”’autenticità” della finzione artistica sta nel riconoscere la “storicità” del simbolo, dunque anche la sua faccia allegorica : nel riconoscere dunque la temporalità e la contingenza della vita, le sue dolorose trasformazioni: “creare, questa è la grande redenzione dalla sofferenza (…) Ma perché ci sia un creatore, sono necessarie sofferenze e molte trasformazioni”.
L’identificazione dell’io con le cose, alla ricerca di una simbolica unità dell’essere, di una totalità, viene in realtà a coincidere con una “scomposizione”, con la frammentazione del soggetto stesso. Si tratta di quella che Starobinski descrive come “l’allegorizzazione di sé, che nella forma di una dichiarazione d’identità (“Io sono”), moltiplica le figure dell’alterità”.
Il soggetto “allegorizzato”, il soggetto in frammenti, non può riconoscersi in una continuità spazio-temporale, ma solo nell’attimo e nel fuggevole scorcio prospettico: in queste “rovine” di una totalità perduta si concentra l’angoscia, la malinconia, ma anche l’ebbrezza estetica nel senso più pieno. In quest’ultima si realizza, come dice Nietzsche, l’unica salvezza possibile.
Il pulsare della vita con i suoi umori si avverte in tutta l’opera di Ceccobelli, così come la traccia di eventi quotidiani e personali: lo spazio di una storia individuale, la selva allegorica di frammenti di vita collocati nel flusso irreversibile del tempo, nella dimensione di un implacabile divenire, caricandosi di una vasta risonanza interiore, si proiettano nella dimensione simbolica, dove si espande liberamente una viva tensione spirituale, rivelatrice di una struggente nostalgia del sacro . E’ un sacro, quello di Ceccobelli, che spira nella ieratica partizione araldica delle figure, ma non ricusa la pregnanza umorale e materica della natura e del vissuto umano, come dimostrano gli oggetti e i materiali di recupero spesso inseriti nel contesto spaziale delle opere e trasformati in immagini auratiche, resi espressione del respiro cosmico.
Le sue figure sono, in quanto simboli, funzione di un eccesso del significante sul significato (Barthes), in cui si mostra qualcosa che rilutta ad essere ridotta a significato dicibile, e proprio per questo ha un infinito potere significante. Esse acquistano così determinazioni che coincidono con i poteri che Mauss e Lévi-Strauss riconoscevano all’oggetto-mana nelle civiltà arcaiche. L’insistenza di Ceccobelli sulla natura “sacrale” dell’arte in genere si ricollega a tutto questo, esprimendo la condizione dell’opera d’arte nell’epoca in cui essa prende il posto di elementi e simboli della sacralità: la figura diventa così veicolo di un rito che mima incessantemente il proprio mito.
In Ceccobelli ha estrema rilevanza il plesso semantico del termine latino figura, come aspetto di ciò che si dà nella fermezza di un contorno e assume un carattere individuale che lo separa dallo sfondo : di qui anche le frequenti forme sagomate dei suoi quadri, i quali ci rinviano ad una splendente evidenza araldica, alla maestosa elementarità simbolica degli stemmi, che un grande scrittore italiano, Giorgio Manganelli, ha collegato al sentimento “allegorico” della vita umana e della morte:
Dove sono cose maneggiate dagli uomini, sentimenti e morte, esplode uno stemma: colore e disegno, segni autorevoli e tremendi . Anonimo, criptico, scostante, totalmente innaturale, lo stemma ci sfida (…) ; sulla sua superficie liscia e dura i nostri occhi cercano indizi, vogliono riconoscere una faccia, una mano, una astrusa, illuminante allusione privata.
In un altro testo, Manganelli evoca l’immagine dello stemma accostandola a quella mimetica e metamorfica, giocosa e magica dell’artista come fool, giullare iniziatico, “calcolato strutturatore di spazi”, “araldico del mondo” e “scopritore degli stemmi”.
Ma si è nominato anche l’emblema: figura simbolica tradizionalmente accostata alla parola. Non di rado, nei lavori di Ceccobelli, le forme si congiungono alle parole, costituendosi in memoria insieme soggettiva e oggettiva, assoluta e relativa in quanto mito e simbolo. Tutte le immagini, poi, se considerate insieme ai loro titoli, possono essere definite emblemi. Infatti “le energie plastiche possono essere nelle parole, nelle associazioni, nei lapsus o nelle deformazioni”, scrive l’artista. Ceccobelli, come Jung, cerca il mito anche nel linguaggio deformato dalle patologie o dai giochi linguistici, in quel linguaggio “spaesato” e trasformato che avvicina e allontana insieme dal segreto dell’immagine, incidendovi però, in ogni caso, le stigmate del tempo e del divenire.
Le immagini “mitiche” e narranti di Bruno Ceccobelli, queste immagini che si uniscono in simbiosi alla parola, si imprimono nella nostra mente come un ponte teso dal mito alla storia. Esse sono sempre una rielaborazione del passato cosmico, un ritorno, attraverso la memoria, alle radici del senso della vita e della morte, da cui scaturisce la proiezione di mondi possibili. Solo un forte impulso di vita, un soffio marcatamente erotico, può permettere all’artista di affrontare questa esplorazione delle radici, che lascia colui che la compie indifeso di fronte al vuoto, nudo di fronte alla morte. Infatti il compito di instaurare senso attraverso la produzione di immagini non potrebbe essere portato a compimento senza l’esplorazione continua della singolarità e dei limiti di ciò che è umano.
L’unità simbolica raggiunta attraverso la creazione delle immagini artistiche ,per non essere un percorso di alienazione e di occultamento del trascorrere della vita, deve modellarsi sul tracciato della differenza, della specificità di ogni esistenza umana. Per questo Ceccobelli sembra dirci, con Zarathustra, che i migliori simboli sono quelli che parlano del tempo e del divenire, quelli che spingono l’esperienza estetica dell’immagine verso il riconoscimento del carattere temporale dell’esistenza, del suo configurarsi come un insieme di frammenti impossibili da ri-assemblare tout-court in un’unità assoluta ed eterna. Come scrive Rilke, nei suoiSonetti a Orfeo:
Sieh, nun heisst es zusammen ertragen
Stùckwerk und Teile, als sei es das Ganze.
[Vedi, ora si tratta di sopportare insieme
Frannnenti e parti, come se fosse il tutto.]