É dal secondo decennio del secolo che un largo settore dell’arte moderna lavora sui resti del mondo, sugli scarti della metropoli ancor più che sui residui di una natura in via di accelerata liquidazione. Alle prese con questi resti tangibilmente oggettuali incontriamo anche Bruno Ceccobelli, ma guidato da un intento che da solo è sufficiente a caratterizzare il suo lavoro: quello di consacrarli. Non si tratta più, come il cubismo, d’integrare i ritagli dei quotidiani e i pacchetti delle gitanes al chiaro dominio dell’intelligenza e della pittura; e neanche, come in Schwitters, d’imprimere l’accento leggero e ironico della propria biografia sopra i minuti oggetti finiti inspiegabilmente nel fondo delle proprie tasche e nei cassetti della vicina scrivania; ma non si tratta nemmeno, come eccede in Rauschenberg, di dar vita, con qualsiasi cosa capitata dentro il cerchio della propria vitalità, ad un’epica eccessiva, visionaria ed impura. É urgente affrontare ed arginare diversamente il logoramento sempre più accentuato del mondo. Per Ceccobelli si tratta appunto di questo: di lavorare alla sua consacrazione.
Poche opere come quella che ci presenta il giovane artista, che ama disperdersi, occorre esaminano tenendo presente la totalità e il suo interno sviluppo. Tanto per l’iconografia che per la sua forma. Dato che questa opera segna le stazioni successive di ciclo aperto, dobbiamo tenere ogni volta conto del punto guadagno come della direzione complessiva del movimento. É come se osservassimo un uomo che sale una difficile scala, sicché la nostra attenzione si trova egualmente divisa fra il gradino raggiunto in via provvisoria e la sommità che, più che scorgerla, la indoviniamo semplicemente.
Il lavoro preliminare, come sempre in questa tradizione, è ancora un lavoro di raccolta. Da tempo, non già la fame corporale, sulle nostre mense troppo prontamente appagate, ma quella dello spirito trasforma il civilissimo artista in uno scaltro e umile raccoglitore; lo obbliga a chinarsi per terra e a raccattare. L’accatto è esattamente l’opposto dell’usa e getta. Chinarsi e raccogliere equivalgono per Ceccobelli, già a salvare e a mettersi in salvo. Ma c’è del manicheismo o, per lo meno, dell’indubbio partito preso nei confronti dell’universo tecnologico, i cui resti vengono con sistematicità esclusi dalla raccolta. Poiché solo alle cose superstiti della natura e dell’attività artigiana si apre, agli occhi esigenti dell’artista–raccoglitore, la possibilità di un nuovo ciclo, di avviarsi lungo la via ascendente della renovatio; della rigenerazione. Esclusivamente per ciò che proviene dalla polvere, ha conosciuto il sudore ed è destinato alla morte, esiste consacrazione.
Che un’artista di oggi impasti la sua opera con differenti miscele di zolfo, di cera e di bitume, e assegni a essa come impalcatura pezzi di legno e di cartone, la combinazione di queste materie e di questi materiali può giustamente illuminarci sul rovescio segreto dei nostri giorni. Come, anni prima, quando radunava ossami e pietre, componendoli insieme con amore sopra le lastre del pavimento. Ancora una volta erano i residui a calamitarlo: dell’uomo (della figura) in quelle povere ossa; della civiltà in quei sassi che riescono a sopravvivere a qualsiasi rovina. Resta sempre che è nella polvere, nel lutto e nella pietà creaturale che Ceccobelli trova la sua ispirazione. La tavoletta di legno corrosa e ulteriormente annerita dal fuoco associa il ricordo della crescita organica e della fatica umana alla presenza sensibile del castigo, della prova e della purificazione. La carta e il cartone sempre di grana grossa, come se fossero fabbricati ancora a mano, ci conducono in maniera inusitata in tutt’altra direzione: all’antichità e alla dignità del segno, della scrittura e della figura. Non importa di quale segno e di quale figura. Nella leggenda francescana, operante in un artista come Ceccobelli profondamente radicato nella terra umbra dove è nato, scorgiamo il profilo di Francesco curvo nella polvere a raccogliere un qualsiasi foglio manoscritto che vi è caduto, dal Santo ritenuto inevitabilmente sacro.
Formalmente, non sono tele ciò che Ceccobelli mette su con ostentazione manuale, bensì sono reliquiari, tabernacoli, urne cinerarie, tavole d’altare. E di ognuno lascio scoperte le connessioni materiali, come se lasciasse olio scoperto scheletri, giunture ossee, nudità corporali.I disegni che riunisce assieme, invece di quaderni, formano breviari, evangelari di salvazioni non mai annunciate, salteri, messali per sacrifici ignoti e che sembrano tutti già antichi, non essere mai stati nuovi, appartenere ad anni anteriori a quelli di cui portano eventualmente la data. Nell’opera, la cura che pone nel tenere su il supporto fisico è pari a quella con cui lo raffigura, poiché non minore risulta la sua efficacia, la sua potenza di effetto e di contagio, la sua capacità d’impressionare e d’impregnare. Con gli stessi spezzoni di legno e di cartone con cui ha costruito la paia o il tabernacolo, ordina senza soluzione di continuità la struttura interna dell’immagine–icona. Ecco cosi che vediamo affiorare il triangolo che àncora l’immagine a un bilanciato movimento, oppure il cerchio che, circoscrivendola, la raddoppia e le conferisce un espansione irradiante, oppure la croce che lacera, sì, la figura ma che ne segna anche, accanto al centro, la quadruplice direzione di sviluppo.
Poiché per consacrare non è sufficiente raccogliere e porre in salvo: bisogna anche marchiare, suggellare, lasciare una specifica impronta, imprimere un’effigie. E su questo fondamento, di necessità interno, di ordine significativo e simbolico, va sottolineato, più ancora che espressivo, che si pone per Ceccobelli la questione della figurazione. Nel suo universo di profondità, l’effigie e l’impronta sorgono in modo sotterraneo da un doppio processo, che, convergendo, mette capo appunto all’immagine: da una parte, attraverso la proiezione dello spessore psichico e immaginario dell’artista medesimo e, dall’altra, attraverso il rischiaramento delle potenzialità d’immagine latenti all’interno del supporto materica impiegato. Ancora una volta, a determinare la figura, entrano in gioco le venature e le accidentalità del legno, la trama delle combustioni, la rugosità della carta, le fratture dei ritagli di cartone. Si stabilisce una corrispondenza fra l’inconscio dell’artista e quello della materia; e da questa corrispondenza emergono la mano e il piede, l’occhio pineale, il volto stilizzato dell’uomo e, dunque, i centri della sua forza interiore; i simboli geometrici e astronomici; lo schema dell’animale e della pianta egualmente esoterici. In una parola, assistiamo con partecipazione al ritorno frammentario dell’icona.
Nel complesso iconografico che configura sempre una mostra di Ceccobelli, l’ambiente a cui si fa allusione non è l’aperta luminosità della navata, bensì la penombra della cripta o della grotta sacra, di questi luoghi sotterranei che ricevono significato dal simulacro o dal corpo che vi ha trovato sepoltura. Analogamente, il retroterra di questo artista si spinge fino alle epoche rimaste con sorpresa tuttora dimenticate dall’avidità archeologica del moderno, come alle creazioni che sin dalle origini sembrano essersi sottratte alle maglie dello storia, epoche di fine e di inizio, e, pertanto, di sonnolento passaggio, di quasi inavvertibile transizione.
Di regressione in regressione, e seguendo la stessa corrente espressiva, se Burri ci aveva ricondotti alla severità dei romanici dell’Italia centrale, Tapies a quelli della Spagna, e Kounellis, attraverso i greci arcaici, ai pastori dell’Arcadia, con Ceccobelli tocchiamo il fondo primitivo, barbarico di un continente che non è mai stato greco-romano e che non diverrà mai veramente cristiano, seppure conosca già il messaggio del Vangelo. Nella sua opera sembra trovare resurrezione l’arte delle provincie europee liberate dalla rovina dell’impero romano, comprendenti il vasto territorio celtico fino a quello iberico. Questo fondo, semisommerso dalla storia, si sposa in Ceccobelli alla poetica dell’oggettualità che usa le materie e impiega i residui, sopra i quali lascia infine, come un atto di battesimo, la propria impronta.
É indispensabile seguire la crescita di una tavola di Ceccobelli, dalla raccolta fino alla segnatura conclusiva, poiché ci troviamo dì fronte a un’arte che si presenta meno come un’opera e più come un opus. Lo schema alchemico, quale è stato illustrato da Jung, si presta altrettanto bene a spiegare la genesi di una creazione che segue docilmente le pulsioni di un inconscio attivo e ribollente. La sua figurazione non ha niente a che vedere con la rappresentazione, poco con l’espressione e moltissimo invece con il fatto che diviene figurativa, che incontra il suo culmine nella figura per coazione e vocazione interna. La segnatura figurativa oltrepassa, col suo aspetto e col suo mistero, la piccola cronaca del nostro presente; e tuttavia non sappiamo neppure se appartenga a un passato o annunci un tempo futuro. Se lo spettacolo e la tecnica, separati oppure congiunti, restano i due grandi contrassegni del nostro presente, il primo come ossessionante contrassegna di superficie e il secondo come contrassegna costitutivo e fondante, l’assenza dell’uno e dell’altro da questa opera ci colpisce fino a inquietarci. Unicamente una possibile profondità nascosta nel rovescio oscuro della nostra vita arriva a specchiarsi nella profondità barbarica e magica, se non superstiziosa, di questa opera; riesce a instaurare con essa una continuità, con l’assemblage new dada col disordine della strada, il disegno selvaggio con la nevrosi dell’artista di oggi. L’opera si presenta dunque a noi con accento di estraneità, che possiamo sormontare solo a patto di lasciarci macchiare, contaminare da essa, oppure a patto di trovarvi un’affinità con la vita di ciò che un tempo si chiamava l’anima.
Come in altre opere dei nostri anni, anche qui il nero, un nero materica incarnato nel catrame e nelle bruciature, risulta protagonista; tuttavia, in modo pienamente originale, il colore si mostra in lotta con la prevalenza di questo nero; gli resiste e cerca di sopraffarlo. Per simile conflitto, un bianco osseo e polveroso, un giallo di zolfo e uno spessore rosso e azzurro di cera si stagliano contro il nero; hanno la forza di strapparsi alle tenebre e alla medesima morte, come i contorni colorati degli antichi affreschi ci vengono incontro, dal fondo buio delle cripte, portati fino a noi dal bagliore delle fiamme. Le figure, trovandosi a eguale distanza dall’imprimitura esterna e dalla levitazione interiore, si presentano sommerse, cancellate ancora dalle vernici e, al tempo medesimo, staccate da esse. A questa liberazione danno il contributo determinante i segni graffiti, le incisioni, gli strappi eseguiti con manifesto piacere servendosi di qualsiasi strumento acuminato, tranne che della punta del pennello. Una religiosità primitiva, ai limiti del feticismo, riemersa dal passato e come del regno dei morti, pone qui i suoi suggelli, nei quali allo scongiuro si mescolano la devozione e la pressante domanda di salvezza.
Roma, 1987
(tratto dal volume “Sciami”, Fabbri editori)