Sono molti anni che seguo, con estremo interesse, l’itinerario creativo di Bruno Ceccobelli.
Nel 1986 lo invitai a partecipare alla mostra Arte e Alchimia, da me curata per la biennale di Venezia, con l’importante lavoro La Melanconia (1984) – una grande tempera e zolfo su carta (alta 2 metri x 134 cm). Il mio interesse era motivato da tre ragioni principali. Ceccobelli è sempre stato fedele solo ed esclusivamente al proprio mondo interiore – scansando risolutamente ogni adesione alle effimere mode del momento. Ha saputo, e sa, esprimere questo suo modello interiore in modo inedito e personale, incurante della disputa astrazione-figurazione che riesce anzi a conciliare; e finalmente, proprio in virtù dell’inderogabile esigenza di esprimere con la più intima adesione possibile i propri moti dell’anima, non ha temuto di cambiare stile, quando ne sentiva la necessità, e ciò anche a costo di disorientare un mercato che nel suo consumismo cannibalistico richiede, paradossalmente, sia costante “novità” – per quanto gratuite possano essere, sia un cliché iconografico facilmente distinguibile, come ad esempio, le bottigliette di Morandi, i personaggi etruschi di Campigli, o le forchette tronche di Capogrossi.
Adottando l’aforisma di Picabia, “la testa è tonda per permettere alle idee di circolare”, Ceccobelli non ha mai esitato a rinnovarsi e a rinnovare la sua sigla espressiva la quale, proprio in virtù del suo radicarsi in una profonda esigenza etica e estetica, emana un’intensa aura poetica.
L’alchimia, designata come Grande arte (Ars magna) è sempre stata considerata dai suoi adepti – che si autodefinivano artisti, poeti (poietès) o filosofi (tanto che il frutto del magistero era appunto chiamata Pietra filosofale – Lapis philosophorum) come l’espressione paradigmatica dell’attività artistica. E, a proposito della Pietra filosofale, ricordiamo che la stessa era un altro nome per la conoscenza aurea (aurea apprehensio) capace di trasformare l’uomo non iniziato (allegoricamente il piombo) in homo totus (conscio della sua androginia psichica), illuminato dalla conoscenza della sua natura intima. Lo scopo originale dell’alchimia può essere riassunto nelle due parole incise sul frontone del tempio di Apollo a Delphi: Gnoti Seauton (conosci te stesso), tanto che gli alchimisti non si stancavano di precisare che il loro oro (aurum philosophorum) non era l’oro metallico (aurum vulgi). Con la stagione dell’iconografia alchemica che s’ispirava ai topoi della tradizione cristiana assistiamo ad una snaturazione dell’opus alchemico: la trasmutazione del piombo in oro non è più la metafora per l’autotrasformazione dell’uomo ma è interpretata letteralmente con i patetici tentativi di arricchimento materiale anziché spirituale.
Per me l’artista è un alchimista che ignora di esserlo. Egli interroga la memoria del mondo archetipico senza accorgersene. I motivi del simbolismo alchemico emergono nell’opera indipendentemente dalla sua volontà. Non è l’artista a dar vita al simbolo, al contrario, è l’artista a subire il simbolo che gli si impone. E mi torna in mente, a questo proposito, quanto disse Breton in uno dei suoi ultimi scritti: “Il sentimento di essere mosso, per non dire giocato, da forze che superano le nostre non smetterà di farsi più acuto e più invadente nella poesia e nell’arte: è sbagliato dire: “Io penso”; si dovrebbe dire “mi pensano”", e qui Breton riprende i termini di Rimbaud, Jung, a sua volta osservava che si possono dipingere quadri molto complicati senza aver la minima idea del loro vero significato e che alcuni motivi archetipici, frequenti in alchimia, sono presenti nei sogni o nelle opere di individui che non hanno la minima conoscenza della letteratura alchemica. E questo perché le aspirazioni dell’alchimista hanno carattere universale. Ognuno aspira a essere eternamente giovane, creatore, libero da ogni costrizione. Questi desideri appartengono al nostro inconscio collettivo e personale.
Il simbolismo archetipico del complesso di Prometeo trova la sua espressione più ricca, complessa e sistematica nell’alchimia. E poiché l’artista come l’alchimista è l’archetipo del ribelle, è logico trovare nell’opera di alcuni artisti un grande numero di corrispondenze con il simbolismo alchemico: entrambi attingono i loro simboli alle stesse fonti collettive e arcaiche. Possiamo dire quindi che l’arte filosofale e l’arte plastica condividono la stessa finalità: trasformare la realtà nella sua espressione più alta. In questo senso, ogni attività creativa avrebbe un carattere alchemico. Vi è però un criterio fondamentale che permette di determinare se un’opera e il suo autore si richiamano alla poetica alchemica. Non conta la trasmutazione della realtà – implicita in ogni opera d’arte – ma la simultanea trasformazione dell’operatore. Questo significa, per l’artista, raggiungere una visione dell’universo e dell’esistenza in armonia con i postulati fondamentali del pensiero alchemico. Significa quindi privilegiare e condividere l’ansia conoscitiva dell’alchimista. L’artista è “l’uomo che si realizza attraverso la ricerca della verità”, queste parole dall’inconfondibile timbro alchemico, sono state invece scritte da Ceccobelli per il mio catalogo Arte e Alchimia (Edizioni La Biennale, Venezia, 1986.p. 251) e non è certo un caso se questo pensiero traversa come un filo rosso tutti gli scritti di Ceccobelli e costituisce il nucleo segreto della sua opera. Come non è un caso che, sin dal 1979, seguendo un seminario di cinque anni di Francesco Albanese a Roma, egli si sia attivamente interessato alla teoria dell’alchimia. Sintomatica poi l’esigenza di Ceccobelli di redarre testi esegetici e programmatici. Nel 1946 Marcel Duchamp spiegava a James Johnson Sweeney: “A me interessavano le idee, non soltanto i prodotti visivi. Volevo riportare la pittura al servizio della mente e naturalmente la mia pittura venne subito considerata “intellettuale”, “letteraria”… . L’arte si dovrebbe volgere in questa direzione: verso una espressione intellettuale e non verso una espressione animale. Sono stufo dell’espressione “bê comme un peintre – stupido come un pittore”".
Da Leonardo a Michelangelo a Delacroix e Van Gogh, da Duchamp, Paul Klee e Kandinsky, a Masson a Max Ernst, da Daniel Spoerri a Peter Halley, ecc. ecc., ogni qual volta l’artista ha obbedito all’esigenza di mettere la propria arte “al servizio della mente” non ha esitato di completare l’opus pittorico con dei testi che ne costituivano il riflesso verbale. E Ceccobelli non è sfuggito a questa regola che conosce pochissime eccezioni.
E’ anche in questo senso che penso all’arte di Ceccobelli come a un’espressione filosofale nel duplice senso della parola: arte che s’ispira a una filosofia della vita e quindi si fa portatrice di valori etici e estetici, e arte che trova la sua ragione d’essere nella pulsione indagatrice, propria anche del sistema filosofico che struttura l’alchimia. Ceccobelli scrive: “L’artista Minimo con le sue tavole Minime vuol realizzare «Pitture e Sculture Sociali». Una Società illuminata” (Tavole minime, D. Montanari Editore, 1997, p. 38). In questa orgogliosa confessione sono racchiuse le aspirazioni e la speranza di un’artista che rifiuta disperatamente il conformismo di una società “post-moderna” che ha dimenticato il trascendentale, guardando il dito che indica la luna anziché l’astro della notte.
(tratto dal Catalogo “Trascorsi d’asfalto” Guastalla Arte Moderna e Contemporanea, Livorno)