In un pittore come Ceccobelli, vocato a tentare materie e simulacri dell’arte, toccandoli e come per fisiologia forte ingrommandoli in una concitazione sorda, a perder senso di sé e ritrovarsi nelle agglomerazioni lente e malianti, densità tutte, ma capaci di emanazioni non più solo evocative, era un approdo dì necessità l’interno metro formale e la fascinazione radiante dell’allegoria, e della crescenza simbolica. La concentrazione estatica del manipolatore, avvinto per eroismi ed erotismi domestici, che avverte del fare con la materia la condizione agonica, e insieme la nudità delle simpatie «a fondo anima» – cosi il titolo di uno dei più distillati lavori odierni -, altre ragioni e altre ampiezze chiede al jeu de fantòmes, in sospetto continuo di meretricio teatrale, delle figure del mondo.
Ecco, allora, nel processo di riconoscimento e assunzione di quelle materie povere, di quelle coloriture devastate e senza storia, inghiottirsi la nozione stessa d’apparenza, e farsi luo-go all’indifferenza aulica delle simmetrie» dei gangli potenti, dei chiasmi; e all’echeggiare stratificato e fecondante delle forme prime, l’uovo, il cerchio.
E’, in questo riesibito senso dell’ordine, in questo possibile nevrotico della ritualità – dell’immagine come sacrum e d’una storia culturale ineludibile, aggallante qui tra Ernst e Beuys, a esorcizzare confronti con certi primitivismi onanistici -, come un modo di spossare definitivamente i turgori espressivistici, serrandoli in impronte di sedimentazione definitiva.
C’è, ancora, il controcanto lieve dell’ironia dissolvente, dell’astuzia che riscatta alla fierezza e al disincanto concettuale del gioco; e la velocità precisa dei gesti, e l’energia critica del non far grande.
Forse, non è ancora stagione di sensi alti e pieni, o forse è il timore di chi, alla soglia di stagioni infernali, ne nomini in giaculatoria privatissima i rìschi retorici, a prosciugarli, a sfrondarne l’edera delle mitologie culturali. Sotto le baldanze di chi ha concesso alla mano quest’aspra souplesse, Ceccobelli insinua la coscienza cauta di chi avverta gli esiti ultimi di questa genetica eccitata, e si aggiri sospeso alle soglie dell’affondo: terribile, o inutile, ma dove il dramma non si finga più.
Flaminio Gualdoni
Ottobre 1989