Ogni tanto, i critici come gli artisti, mettono ordine nel loro curriculum, riguardano pubblicazioni e cataloghi accatastati al fondo della biblioteca, ricordando così ì momenti salienti del proprio, percorso. Qualche tempo fa consideravo la mancanza, tra i miei testi, di un lavoro dedicato a Bruno Ceccobelli. Mi dicevo, chissà perché non ho mai scritto di un artista che quando ero ragazzo mi incuriosiva e mi stimolava. Forse ero troppo giovane negli anni ottanta, all’epoca in cui Cecco imperversava nella romana via degli Ausoni e il suo studio all’ex pastificio Cerere si proponeva come autentica fucina iperproduttiva popolata da numerosi assistenti e aiutanti di bottega. Mi sembrava intrigante e moderno il progetto di Cecco: un luogo con l’aria e il fascino da laboratorio antico, sull’esempio delle fabbriche d’arte quattrocentesche in cui rilevante era il manufatto, la manipolazione e il tocco finale del Maestro, ma dove tutto era reso assolutamente contemporaneo dalla continuità giornaliera del prodotto, come se la Bauhaus di Gropius e la Factory di Warhol fossero entrate nelle regole di un secolare meccanismo produttivo. Da una parte una scuola di vita e di pensiero, dall’altra l’apertura verso il mondo, l’attualità e le sue contraddizioni. All’epoca conoscevo Cecco solo per sentito dire o Io incontravo qualche volta alle mostre. Poi lui è tornato a Todi e io ho smesso di frequentare Roma con assiduità. Da quegli anni molte cose sono cambiate, il gusto nell’arte si è spostato su altri territori, il clima caliente della movida capitolina si è raffreddato anche lui. C’è stato bisogno di qualche sosta e di alcuni ripensamenti. Chi ha resistito è diventato un classico. Come Bruno Ceccobelli oggi.Secondo me l’arte degli anni ottanta in Italia ha coinciso con un momento ricco di idee e stimoli di tale intensità che in seguito non si è più ripetuto. Adesso se non parli inglese pensano che sei cretino, allora l’italiano era la lingua dell’arte e anche gli amici americani erano ben contenti di imparare le parole del nostro coltissimo idioma, ABO aveva capito l’importanza del Genius Loci, ovvero di un’arte che facesse del particolarismo la sua forza, relazionata all’intimo specifico e alla tradizione storica di ciascuno. II modello italiano, riconoscibile addirittura dalle sfumature regionalistiche, ottenne successo proprio laddove si perseguivano forme indifferenziate e appiattite sull’impersonalità dell’international style, tornato in voga in tempo di crisi, da dieci anni in qua. D’altra parte, se si discute ancora sull’attribuzione geografica di un’opera antica secondo gli stilemi linguistici (è realizzata a Firenze o Siena ?) vuol dire forse che il cosiddetto localismo non può passare del tutto in secondo piano. Ceccobelli dicevo è un classico, uno che conosce molto bene la storia dell’arte e che la affianca spesso e volentieri con considerazioni culturali di notevole spessore. Sfogliando la cospicua letteratura critica a lui dedicata mi sono accorto di un continuum determinato da un approccio di carattere filosofico che confina nella lettura dei simboli, nello svelare le intenzioni speculative e teoriche, nell’insistere sulla componente mistico-meditativa che indubbiamente l’artista suggerisce in quanto via maestra per un accrescimento cognitivo.
Luca Beatrice
Ottobre 2002