II silenzio, la nostalgia, il senso della decadenza costituiscono la risonanza soggettiva dell’esercizio precario, avventuroso della critica. Un esercizio dai risultati non cumulabili, avvinto nel gioco vertiginoso, ad infinitum, della significazione; gioco di clown, se la critica è costretta a parlare dei suoioggetti fingendo di possederli sino in fondo, o fuoco d’artificio, scrittura intermittente, inafferrabile e angosciosamente libera, che non si lascia leggere per ciò che significa. La verità minaccia di essere inghiottita da ciò che ha messo in moto: ragionevolezza, buona volontà dell’intendersi. La verità è costitutivamente inghiottita nel conoscere, sempre destinata a turbare la critica come irrealtà, slancio utopico, inquietante tangenzialità, tensione asintotica. Giunto a un punto di crisi nel suo percorso esistenziale, in concomitanza con il sempre più veloce dissolvimento delle certezze ideologiche ed epistemologiche generali, Bruno Ceccobelli è approdato a una figurazione che è sapore dell’originario, radice dell’esperienza, forza di una tradizione occidentale che pone il corpo umano come fonte prima di ogni emozione, di ogni sensazione di chi dà vita all’opera d’arte e di chi la osserva, E tutto questo si fonda sul principio psicologico dell’identificazione: un appiglio, un punto essenziale per chi avverte il proprio viaggio di riflessione e di scoperta trasformarsi inesorabilmente in un naufragio. Ceccobelli, allora, non rimuove la vertigine del moderno, il caos irrelato dei saperi, la frammentarietà spaesante e inebriante della conoscenza, ma ne prende atto e si scava un sentiero esatto e doloroso, problematicamente catartico, in questa foresta di simboli tecnicizzati, svuotati del proprio senso profondo, come mirabilmente scrìveva Furio Jesi occupandosi dei rapporti tra simbolo e modernità. Rifiutando la modernità come tecnicizzazione dei simboli e specializzazione “meccanicistica” dei linguaggi, Ceccobelli ne recupera tuttavia il profondo anelito utopico, tentando un’indagine profonda del senso sacrale, polimorfo eppure universale, delle tradizioni culturali e artistiche, aprendosi così a una forma piena di comunicazione sociale, attenta a eludere omologazioni e mistificazioni. Come non pensare, allora, a Joseph Beuys, artista amatissimo da Ceccobelli, la cui poetica può essere riassunta nella sua stessa frase «pensare è plasticità», da intendere in primo luogo letteralmente: il cervello umano non è una massa inerte, ma subisce mutamenti fisiologici nell’atto stesso di pensare. Un artista può dare, per Beuys, solo ed esclusivamente degli stimoli di pensiero. Se ciò gli riesce ha raggiunto il suo scopo principale. Il mutamento plastico del cervello segnala in ogni caso un processo mentale, e la pienezza dei segni di un’opera d’arte indica la via della conoscenza. Di qui l’ “apertura” delle opere di Beuys, che esigono una partecipazione attiva e totale dello spettatore. Bruno Ceccobelli, pur non rinunciando a un forte impatto percettìvo-sensuale dell’opera, mantiene vivo questo processo di plasticità mentale, inteso quale apertura di un solco, impressione, nella mente di chi osserva, del tracciato di un percorso di interrogazione intorno alla verità, di una ricerca sulla possibilità di verità, e narrazione di tale ricerca.
Aderendo “vertiginosamente” alle proprie esigenze di narrazione per immagini, Ceccobelli può garantirci il “sorprendente” apparire dell’immagine che disvela la realtà come icona enigmatica, stratificata e complessa di elementi imponderabili e infinitesimali, non squadernabile in chiarezza unidirezionale. Emozione e idea arrivano spesso, nelle sue opere, a fare tutt’uno, e il suo misticismo viene espresso, come lui desidera, quale puro sentire. Così avviene anche in questo ciclo di dipinti a tempera su carta a mano, in cui il raccontos’imposta su una serie di “matrici figurali”, immagini che funzionano come una sorta di “calchi originari”, secondo le classiche, antiche regole della pittura, benché queste norme siano spesso “inquietate” da scarti significativi e “perturbanti”: prospettive anomale, chiaroscuri non “accademici”, licenze sull’anatomia del corpo umano.
È un ciclo narrativo simbolico, che rimanda alla trasformazione e all’elevazione. E proprio il demone della trasformazione presiede all’opera di un altro artista prediletto di Ceccobelli: Mondrian. Il mito della metamorfosi attraversa l’opera dell’artista olandese come una fiamma che bruci le apparenze per estrarne le essenze. L’emozione si dà come idea.
Mondrian rifiutava il cubismo perché riteneva avesse adottato il percorso cartesiano-razionalistico fine a se stesso, non come mezzo per arrivare a una conoscenza superiore. La vera conoscenza tende, per Mondrian, all’abbandono mistico, pur fondandosi sul rigore della costruzione raziocinante, e all’equazione tra Natura Naturans e Natura Naturata formulata da Spinoza. La più alta coscienza è coscienza della disseminazione dell’io nell’Universo, della fusione tra microcosmo e macrocosmo, della sovra-individualità dello spirito. Questo origina un senso del sacro che la poetica di Bruno Ceccobelli condivide.
Silvia Pegoraro
1997